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venerdì 20 febbraio 2015

Io,il maestro, e la batteria jazz: Whiplash

Prendete una delle scuole di Jazz più prestigiose d'America, prendete un ragazzo( Miles Teller) che vuole vedere all'orizzonte della vita, il suo nome scritto a caratteri cubitali. E prendete un insegnante( J.K Simmons), che non è disposto a risparmiare nulla ai suoi allievi, in termini di sacrificio, fino a rasentare il sadismo sia psicologico che fisico.Ed avrete gli ingredienti base, dell'esplosivo film del giovane regista Damien Chazelle.
Ultima scoperta, proveniente dal vivaio indie del Sundance festival, Chazelle si è ispirato alla sua personale esperienza giovanile, girando quello che era originariamente un corto. Dopo il buon successo, decide di riscriverlo e presentarlo come lungometraggio nell'edizione 2014 del Sundance festival,aggiudicandosi sia il premio del pubblico che della giuria.E delle produzioni dell'ultimo cinema indipendente americano, questo film condivide la particolare originalità di sguardo e prospettiva.Nel film la tradizionale e cinematografica dialettica maestro-allievo,sadismo incluso, e già riferita ai personaggi icona di Full Metal Jacket e Rocky, viene trasportata nell'ambito,certamente meno usuale della musica. E che musica! Sicuramente quella meno frequentata e che non ha mai brillato per simpatia e popolarità nei più:parliamo del jazz.
Persino lo strumento del giovane protagonista Andrew, cioè la batteria, rappresenta una sfida tout court della trama.
Tutta la storia del rapporto,tra il giovane e ambizioso Andrew ed il mefistofelico insegnante di musica Fletcher, si gioca, come una continua rincorsa ad alzare il limite, per il raggiungimento della posta in gioco.Mentre la trama che si tesse tra i due, mescola inganno e seduzione,senza esclusione di mezzi,e con continui colpi di scena.Il fine, unico obiettivo comune, resta sempre quello della realizzazione dell'eccellenza nell'arte. Stimolata con lo studio parossistico della batteria, e spinta ad emergere, per venire alla luce, in quanti hanno il dono di possederla.
Perchè all'arte, tutto può e deve, in certa misura, essere sacrificato. Le convenzioni di una società che ci vorrebbe tranquillamente adagiati in gratificazioni meno “esposte”,(la condizione di scrittore fallito del padre di Andrew,viene sadicamente derisa da Fletcher)e persino in questa fase, se distraenti, i sentimenti personali.
L'arte e il genio, con la sua unicità, “è figlia della violenza”,dice Fletcher, perchè solo attraverso essa, si diventa liberi dai limiti che la società vuole imporci. E ricorda al suo allievo continuamente,un aneddoto su Charlie Parker e le due parole, che sole, possono imprigionare per sempre il talento che è in noi. Quelle che dicono, che si sta facendo bene:”a good job”.
Alla stregua di un thriller anche un po' noir nei toni,e non privo di un sottile e caustico umorismo,il film procede con ritmo serrato tenendo incollati gli occhi il cuore e le orecchie al ritmo frenetico della batteria, assoluto terzo protagonista del film. Splendidamente fotografato, e montato in sincronia emotiva con il volto e i gesti di Fletcher, nonché al sudore e al sangue di Andrew che vengono,letteralmente,versati sui rullanti batteria. Il film si avvicina in un notevole crescendo emotivo al finale, che ci regala una delle più belle sequenze di tutto il film. Whiplash pone e invita a porci molte domande: su quali possano essere i limiti accettabili dell'insegnamento artistico, sul rapporto di potere tra insegnante e allievo(ma forse sul potere in assoluto), sul senso dell'arte e sul suo fine ultimo. Il tutto senza dare risposte e tenendosi lontano dal proporre soluzioni buoniste,ipocrite o falsamente consolatorie.
I personaggi di Andrew e Fletcher,infatti, si muovono in maniera lucida e coerente con le proprie finalità,senza aver paura di mostrare la propria cattiveria o la propria legittima ambizione.
Certamente,legittimati da un fine “alto”, e vissuto con coerente autenticità.
Whiplash, ci conduce e ci avvicina con impareggiabile maestrìa al senso più profondo della musica(non solo di quella jazz,che già di per sé, è notevole impresa),veicolando attraverso le splendide interpretazioni dei due interpreti (ma la menzione specialissima è tutta per J.K.Simmons),tutta la sua potenza deflagrante e liberatoria.
In assoluto uno dei migliori film del 2015, e uno dei più belli realizzati, sulla musica.
Se non l'avete già fatto,correte subito a vederlo.

Da non perdere.
 

Cosa abbiamo fatto al buon Dio?


E' il titolo originale di Non sposate le mie figlie!prima commedia di rilievo,del regista Philippe de Chauveron.
Ed è anche quello, che probabilmente si chiede Charles Verneuil insieme alla moglie Marie,quando pensa a tre delle sue quattro figlie, sposate in rapida successione rispettivamente ad un ebreo, un arabo,e un cinese.
Tutte le aspettative, maturate nell'alveo di una tranquilla vita borghese trascorsa nella provincia francese e suffragate dalle idee golliste di Charles, sono infatti, miseramente naufragate nella realtà di una Francia politicamente corretta, ed aperta alla piena integrazione razziale dei matrimoni misti.
Dopo le schermaglie iniziali ed i battibecchi pungenti, che vedono protagonisti non solo i Verneuil,ma uno contro l'altro, anche i tre generi; con la maggiore conoscenza, e progressivamente con la nascita dei nipotini; tutte le fratture sembrano ricomporsi,in un ecumenico abbraccio di ritrovata solidarietà ed armonia.
Ma le sorprese sono in agguato.
In occasione del Natale, l'ultima delle quattro sorelle, annuncia alla famiglia il prossimo matrimonio con un ragazzo francese e cattolico; risvegliando le speranze e il sogno mai sopito nei genitori, di avere finalmente in famiglia, un matrimonio “normale”...
La commedia di Chauveron utilizza tutti i tòpoi del genere, per rappresentare con mano leggera, le ansie e le contraddizioni della società francese più tradizionalista, repressa e contenuta nell'apparente politically correct. Proponendo nel contempo, ad un pubblico immaginato come trasversale, le rassicuranti certezze dell' ”Altro,” rappresentato come una figura, già ben inserita nella società francese. Infatti i tre mariti delle giovani Verneuil, svolgono professioni importanti per la comunità:essendo rispettivamente uno imprenditore,l'altro bancario ed il terzo, avvocato.
Nessun disoccupato, nessuna banlieu turba lo spettatore o inquina la superficie della trama. Ed il film risolve ogni possibilità d'approfondimento sul tema razzismo e integrazione multiculturale, con pochi graffi;lasciati soprattutto alle battute dei tre giovani uomini.
Non s'infierisce con cinica cattiveria dunque; preferendo invece toni più morbidi e concilianti.
Apertura e conciliazione, sono nel tratteggio di tutti i personaggi femminili ai quali con condivisibile generosità,
il regista- sceneggiatore attribuisce e affida per “vocazione”,questo ruolo .
Va ricordato che il film, campione d'incassi in patria, è uscito ben prima dei tragici fatti di Charlie Hebdo.
Sostenuto da un buon ritmo e da attori tutti simpaticamente in parte,C. confeziona un buon prodotto che pur non ambendo ad entrare nella storia(Indovina chi viene a cena, è lontano,e non soltanto cronologicamente),garantisce un'ora e mezza di gradevole spettacolo e più di una risata.
Restiamo sempre ammirati dalle capacità dei nostri cugini d'oltralpe, e dalla forza del loro sistema produttivo.
Sistema che li ha portati negli ultimi anni anni ad affermarsi non solo in patria con tanti successi, ma anche sui ben più difficili, mercati esteri. Con una continuità, ed un valore della loro cinematografia, che anche a livelli medi(soprattutto nelle commedie), mostra una qualità ancora molto lontana da quella delle nostre commedie.
E ricorda ancora una volta ai nostri amministratori culturali, sempre più latitanti,quanto ripaghi invece, investire sul valore fondante della cultura

A ognuno il suo Birdman.

Prosegue con Birdman il fortunato trend che vanta tra gli illustri predecedenti,seppure agli antipodi, The Player di Altman e il recente Maps to the stars di Cronenberg; a dimostrare ancora, quanto successo di critica e pubblico riscuotano Hollywood Broadway, e in generale il mondo dello spettacolo nella sua interezza, quando propongono una riflessione su se stessi e sui loro spesso perversi, meccanismi.
E' un feroce e caustico gioco al massacro,l'ultima fatica del messicano Iñárritu,che prosegue la marcia trionfale verso gli oscar,con un già ricco carnet di premi conquistati.
Il protagonista Riggan Thompson (Michael Keaton),attore in declino ma che ha conosciuto in passato il grande
successo nei panni di un pennuto supereroe,tenta il riscatto investendo tutto se stesso, nell'allestimento teatrale a Broadway di un testo di R. Carver. Credendo,di poter dimostrare a se stesso e al pubblico, il “vero” attore che si cela dietro la maschera del supereroe. Sarà ostacolato in questo percorso dal suo alter ego pennuto, che lo accompagnerà come scomoda coscienza critica, portandolo in un percorso ad ostacoli, a conseguenze estreme quanto imprevedibili.A completare il cast sulla scena e nella vita di Riggan:un cinico produttore nonché avvocato personale(Zac Galifianakis) ,un attore osannato dalla critica che renderà dura la vita a tutta la compagnia (Edward Norton candidato all'oscar),la figlia fresca di rehab ed in defict d'affetto paterno(Emma Stone candidata all'oscar)la prima attrice perennemente insicura(Naomi Watts),l'attrice ed amante trascurata(Andrea Riseborough),e l'ex moglie.Il film si snoda come un lungo e sinuoso piano sequenza sapientemente montato,che avvolge ed accompagna i protagonisti nel loro entrare ed uscire dalla scena così come entrano ed escono dalla loro interiorità in un continuo rimando tra realtà e rappresentazione di se stessi. Quasi interamente girato nel famoso St.James Theater con un ritmo travolgente che s'intreccia alla strepitosa colonna sonora di una batteria jazz dal suono sincopato;imbandisce uno spettacolo dove niente viene risparmiato:dal ruolo della critica sostanzialmente chiusa nei propri clichés di pensiero e incapace di cogliere ciò che di nuovo esprime
la contemporaneità perchè vincolata alle sue etichette ed autoreferenzialità.Al ruolo straniante che giocano i media ed i nuovi social.(godibilissima la battuta su Barthes). E sulla sostanziale contrapposizione culturale che si vuol far giocare tra ciò che è ritenuto popolare-commerciale quindi “basso” e contenuti riconosciuti da una élite, e principalmente perchè ad essa funzionali, sugellati come “artistici”.
Il film è anche una riflessione sulle tecniche di recitazione e sulle mille nevrosi che ruotano intorno al mestiere d'attore.Tutti gli interpreti concorrono,giocando con rimandi alle propria realtà di attori a cominciare da Michael Keaton; e si sprecano anche battute al cianuro, su altri illustri colleghi.
Unico punto debole è proprio la cifra surreale onirica che viene spesa soprattutto nel finale,che sebbene
dichiaratamente aperto lascia perplessi.
Altra nota stonata, il trucco: mai visto infierire così tanto su un attore.
Da vedere


La douce France di Gemma Bovery

Una riflessione tutta francese nei suoi illustri richiami letterari(Flaubert),quella di Anne Fontaine,regista di Gemma Bovery.
Tratto da una graphic novel della britannica Posy Simmonds,alla cui produzione aveva già attinto Stephen Frears con Tamara Drewe.
Protagonista in entrambi i film, l'attrice Gemma Artenton alla pari con l'ottimo Fabrice Luchini.
La campagna Normanna è la cornice borghese in cui si muove Martin, ex parigino con la passione della grande letteratura,che vi si è trasferito con la famiglia in cerca di tranquillità.La troverà,occupandosi della panetteria di famiglia.
Nell'idilliaca cornice irrompe la coppia di nuovi vicini inglesi, la cui moglie, Gemma Bovery, ha il nome del libro feticcio di Martin,scritto da Flaubert.
Le forme suadenti e reali di Gemma sembrano ripercorrere agli occhi di Martin quelle del personaggio letterario,diventando per lui, incrocio e detonatore tra il desiderio e la passione momentaneamente sopiti, e la fantasia mai doma, della sua estrosa e a tratti nevrotica personalità.
La commistione tra realtà e desiderio, tra vita e arte diventano così, pian piano, la sceneggiatura che Martin s'illuderà di poter gestire e padroneggiare.
Gemma,osservata e trasfigurata nel suo corrispettivo letterario,diventa nelle maldestre ed improvvide intenzioni/azioni di Martin,la materia palpitante e sulfurea che costituirà nella realtà,l'eterna sfida tra arte e vita. Mutuando l'una nell'altra.
Nello sviluppo finale della storia, sono contenute le uniche tracce dell'originale “spirito british” della graphic novel,soprattutto quando la vita vera,disporrà le carte in tavola, diversamente dalle aspettative di Martin.
La regia è estremamente accorta e sensibile nella messa in scena, mantenendo la giusta “distanza” tra realtà ed immaginazione.Indulgendo solo qualche volta di troppo, sui primi piani di Luchini.
D'altra parte, pur con qualche limite di maniera,non si può immaginare attore migliore per un tale soggetto.
Ricordiamo a tal proposito, Luchini nel personaggio di Molière in bicicletta, con il quale, il film ha molte assonanze.
Gemma Arterton è materia incandescente.Splendida nel ruolo atto a suscitare turbamenti e passioni( il personaggio di Tamara Drewe , era già una promessa in tal senso).Bravi ed in parte tutti gli altri interpreti.
Un film che rende lieve in maniera equilibratissima, il rapporto tra vita ed arte,che lieve non è.
Capace di riflettere con sincerità ed humor anche sui limiti del suo nazionalismo.
Insomma un film deliziosamente,irriducibilmente francese,come solo un film francese sa essere!
Da vedere



Luce ed ombra: Mr.Turner

Mike Leigh arriva nelle sale italiane con il suo Mr.Turner, forte di un premio-meritatissimo- al miglior interprete maschile (Timothy Spall (Cannes 2014) e di una candidatura come miglior fotografia ai prossimi Oscar, per Dick Pope.
Scevro da ogni pericolo di agiografia, tasto dolente, in special modo quando si vuol rappresentare cinematograficamente l'arte di un pittore, il regista ci racconta gli ultimi 25 anni del “genio della luce” Joseph Mallord William Turner.
Pittore vissuto tra il XVIII e il XVIX secolo T. ha abbracciato sia l'epoca georgiana che quella vittoriana. Ed è considerato uno dei massimi paesaggisti del suo tempo, precursore dell'espressionismo. Nei 149 minuti del film
Turner ci viene mostrato in tutta la sua ambivalente umanità ricca di contraddizioni.Depresso dalla scomparsa
dell'amatissimo padre e custode,T.si rifugiò nell'arte pittorica alla ricerca del mistero inafferabile della luce, nelle innumerevoli manifestazioni che di essa,ci da la Natura Suprema. Indagò e riportò ogni esperienza visiva, nei suoi taccuini,cercando ovunque-nei molti viaggi-questi eventi si manifestavano.Fu sempre stimolato da ciò che pone gli uomini in contrasto con la potenza della Natura, che era sua convinzione, racchiudesse in sé, il principio divino. Febbrilmente visse la sua ricerca pittorica così come voracemente consumò i suoi istinti sessuali con la governante Hannah che gli dedicherà in silenzio la vita,pur essendo,di fatto,completamente invisibile alla sua “vista”.Rude e sgradevole nei modi e nell'aspetto, restìo ai condizionamenti di una società vittoriana che finirà per non comprenderne la modernità. Si isolò sempre più dai rapporti sociali, rifuggendo da qualunque compromesso, sia con l'Accademia delle arti di Londra che nel privato.Tollerò,infatti a malapena, le due figlie avute da Sarah Danby parente della governante.Diffidente, ma in qualche modo affascinato dalla modernità incombente (la fotografia che cattura la luce nella scatola);cederà sempre più ad una misantropia forse più subita che voluta, rischiarata negli ultimi anni della sua vita, dalle cure dell'accogliente Sophia Boot,nella cui casa a Chelsea, morirà nel 1851.
Leigh ci mostra “l'uomo” Turner, inserito nel contesto sociale di una umanità anch'essa sofferente e non esente da contraddizioni ed ipocrisie.Di grande accuratezza formale, scene e costumi. Della fotografia già si è detto.
E' tuttavia difficile empatizzare,nel complesso, con un personaggio sullo schermo tutto grugniti ed egoismi.Solo le sequenze finali,riportano un po' di equilibrio allo spettatore provato dai 149 minuti.Un parziale riscatto di senso che oltre a contenere una implicita dedica “politica”, alla povera governante Hannah(una splendida Dorothy Atkinson) mette la firma sulle reali intenzioni del regista.

Per gli amanti del genere.

Biopic avanti tutta:The Imitation Game





Sull'onda di un rinnovato e ciclico interesse per i biopic,spesso coronato dal successo (ben tre biopics confluiscono nella rosa degli Oscar 2015 come miglior film);approda sul grande schermo questo film,tratto dall'autobiografia di Alan Turing scritta da Andrew Hodgens e adattata per il cinema da Graham Moore.
Alan Turing genio matematico inglese, a 27 anni in pieno conflitto mondiale, fu chiamato a ricoprire in segreto dal governo britannico, insieme ad un pool di brillanti menti,il ruolo di capo coordinatore del progetto ENIGMA.
Il quale si proponeva di decrittare il codice segreto usato dai nazisti, per comunicare le loro, operazioni belliche.
Il genio visionario di Touring ideò e costruì una macchina che riuscì nell'intento,cambiando il corso della guerra,e salvando migliaia di vite umane.
Finita la guerra, fu accusato di omosessualità(reato punibile in Inghilterra fino al 1983)e condannato alla castrazione chimica che scelse in luogo del carcere;ma che lo portò in breve al suicidio, a soli 41 anni.
La macchina inventata da T.,viene considerata oggi, insieme ad altri suoi interessanti studi sul rapporto intelligenza meccanica- mente umana,l'antesignana del computer e della moderna scienza informatica.
Il film sicuro di un buon impianto nei vari comparti di sceneggiatura, scenografia e montaggio, procede nell'alternarsi di flashback e forward con una regia consapevole di orchestrare il compito, con dignitoso mestiere.
Non ci sono guizzi o digressioni per il pubblico, che non siano quelli,probabilmente decisi a tavolino dalla produzione(il re midaWeinstein);che in tutta evidenza,non vuole spingersi più in là, dei tranquilli territori di una indagine sul “caso storico” che esige il tributo dell'umana giustizia.
L'empatia e le altri possibili ed interessanti letture del film, risiedono tutte nell'interpretazione toccante e sfaccettata che ha il volto dell'astro nascente Benedict Cumberbatch.
E' nelle mille sfumature che Cumberbatch fornisce al personaggio che si può rintracciare un rapporto esistente tra lo sfortunato amore adolescenziale di T. traslato nella concretezza della sua macchina, alla quale trasferisce, in un impossibile e disperato recupero, il nome dell'amato.
Oppure si trova nel disagio comunicativo del personaggio-ai limiti dell'autismo sociale-, quello più ampio della difficoltà di comprensione tra uomini, definiti “diversi”.
Allo stesso modo essi necessitano di codici di decrittazione per essere compresi; ma non sempre questi ,sono in linea con i tempi e le convenzioni sociali.
Gli altri attori del cast,si mantengono nella sufficiente prestazione, con qualche riserva per la scialba interpretazione di Keira Knightley(candidata all'oscar.. ça va sans dire) che impersona Joan
Klarke.L'unica, che riuscì forse, a decrittarne l'anima solitaria e tormentata.
Resta l'amaro per una vicenda umana così crudele e solo parzialmente riscattata.
Per tutto il resto c'è odore di oscar.
Nel caso, sicuramente da Cumberbatch meritato.

Consigliato.

Alfonso Gatto


All'alba


Come la donna affonda e dice vieni

dentro più dentro dov'è largo il mare

Come la donna è calda e dice vieni

dentro più dentro dov'è caldo il pane

e dirla noi vorremmo mare pane

la donna sfatta che ci prese all'alba

dentro il suo petto e ci nutrì di sonno.




Sorriderti


Sorriderti forse è morire,

porgere la parola

a quella terra leggera

alla conchiglia in rumore

al cielo della sera,

a ogni cosa che è sola