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domenica 26 giugno 2016

I soliti ignoti

UNA COMMEDIA SPARTIACQUE

Dalle frange del neorealismo rosa (Poveri ma belli, Pane amore e fantasia), guadagna spazio, alla metà degli anni 50, un versante orientato verso la commedia comica, che già aveva prodotto alcune punte di diamante come Guardie e ladri e La banda degli onesti, entrambi con l’immenso Totò.
Solo con l’exploit nel 1958 de I soliti ignoti però – considerato giustamente un film spartiacque -, la caratteristica bozzettistica o caricaturale che avevano molti personaggi del cinema precedente,viene messa da parte. In questo film, nasce infatti, attraverso la sceneggiatura della coppia Age e Scarpelli, un gruppo di  personaggi costruiti per la prima volta, con un proprio spessore umano ed affettivo,e con una doppia natura; dipinta a tinte sì esilaranti e satiriche, ma anche malinconiche e sconsolate. Personaggi che diventano protagonisti realmente, “a tutto tondo”. Sullo sfondo, l’ambientazione affatto brillante ed ancora di stampo neorealista, che inquadra lo status sottoproletario dei protagonisti: una Roma squallida e sudicia, ancora lontana dai fasti del boom economico, e dal ritratto brillante, di tanto cinema successivo. Anche per gli attori del  cast, il film costituì una svolta d’immagine e di carriera: dal Mastroianni latin lover, trasformato in “mammo” succube del figlioletto, al Renato Salvatori bello e spumeggiante, trasformato nel redento e maturo Mario, all’eclatante metamorfosi di Vittorio Gassman, passato dal Kean teatrale e raffinato villain del  cinema, al primo ruolo comico da pugile sfigato.
Il cameo di Totò poi, seppure nei limiti di una partecipazione, riassume nel personaggio di Dante Cruciani, tante delle caratteristiche originali ed innovative del film. Prima tra tutte, l’inadeguatezza e la frustrazione (auto-inflitta), che accomuna i protagonisti e che deriva dal mancato adeguamento alle regole della società. Caratteristica che si preannuncia già, con la sola entrata in scena di Totò, in pigiama. E ancora, ci racconta dei trascorsi di chi si aggrappa all’idea del furto come ultimo metodo dell’arte di arrangiarsi, unico altro modo di vivere nella società, senza abbassarsi al lavorare. La parte comico-satirica  si alimenta dunque della natura stessa dei personaggi, ritratti nella loro umanità; ora tenera e umile ora meschina e improvvida. Tutti si misurano con un’impresa enorme, rispetto alle loro più o meno dichiarate risorse e abilità. E il cortocircuito tragicomico è determinato proprio dallo scarto tra l’obiettivo che si propongono e le effettive possibilità di raggiungerlo. La loro inadeguatezza smaschera anche la vera natura del loro animo e delle loro pulsioni – in fondo in nessuno di loro alberga la reale voglia e convinzione di portarlo a termine – che sono proprie di una vita vissuta di espedienti, e che non lascia grandi margini per riscattarsi dal proprio status sociale. Altro elemento di novità è la morte, che irrompe per la prima volta in un film comico, con la scomparsa dello sfortunato Cosimo (Memmo Carotenuto). Anche questo elemento  però, viene modulato opportunamente per non dare uno spazio ed un significato non congruo alla narrazione.
Il successo del film e la sua importanza sono dovute alla leggerezza con la quale si offre allo spettatore l’immagine complessa di un’epoca, un mondo di povertà urbana che resiste nei suoi valori tradizionali all’attacco della nuova società di massa. Riuscendo anche, a sottolineare il tema ancora pressante della fame, trattato agli albori del boom economico.
Il film ha vantato e vanta ancora oggi tanti tentativi d’imitazione, ma la profondità psicologica dei personaggi e la loro inettitudine “autoprotettiva” sono talmente articolati e compositi da rendere vano ieri come oggi, qualunque tentativo in questo senso.

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