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mercoledì 26 luglio 2017

Un grande futuro dietro le spalle: The Planet Apes -the War.

Prendendo a prestito la nota citazione di Gassmann, si può dire che questo capitolo conclusivo della saga reboot targata Matt Reeves,con il suo protagonista Cesare, si proponga come un ritorno-reinizio delle origini del cinema classico hollywoodiano e al contempo si costituisca come una interessante riflessione- rilettura sul cinema di genere stesso. I due capitoli precedenti avevano seguito Cesare nel percorso evolutivo che da vittima delle storture umane,sociali e politiche, l'aveva trasformato in capo spirituale dei suoi simili. Subentrato nel secondo capitolo, Reeves diventa, in questo che ne è la conclusione, anche cosceneggiatore con Mark Bomback; portando a compimento un affresco totalizzante, denso di riferimenti cinematografici e filosofici sedimentati nell'immaginario collettivo, ma anche una proposta personale di cinema che da questo immaginario trae una sintesi e una interpretazione efficacemente riuscita e personale. Abbondano i riferimenti, in questa cavalcata post apocalittica: gli spazi e la fotografia da aperti e luminosi si adattano via via a vestire, commentandoli, i cambiamenti emotivi e i tormenti di Cesare. Seguiranno, lo snodo esiziale dell'incontro con il villain umano, colonnello Woody Harrelson, bravo quanto basta in un ruolo che ne limita per definizione, le possibili sfumature. La fotografia che diventa sempre più scura, negli spazi angusti delle grotte e del campo lager, darà spazio e luce solo ai primi piani emotivi di Cesare, uno straordinario Andy Serkis da oscar. Apocalipse now, Schindler's list, Ben Hur ma anche l'Ethan Edwards di Sentieri Selvaggi si avvicendano sullo schermo suggeriti dai tormenti,dai mille dubbi sulle responsabilità di un capo,dal desiderio primigenio di vendetta, dalle istanze, suggerite dalla purezza senza voce della bambina umana. C'è qualche indulgenza retorica di troppo, è vero. Sottolineata da incursioni sonore un po' troppo enfatiche, qui e là. Ma poca cosa, rispetto al grande spettacolo che scorre sullo schermo: un montaggio serrato che unito allo splendore della motion capture, che ormai ha raggiunto livelli altissimi; conduce l'epopea biblica di Cesare e della sua specie, a riscoprire la linea di confine che unisce scimmie e quel che resta della nostra umanità .Quel ponte tutto emotivo e sentimentale che gli/ci consentirà di sopravvivere, restituendoci l'alba di un possibile futuro negli spazi, da abitare, della sequenza finale.
Il segno di una possibile civiltà, sullo schermo e per una volta, senza distinzioni di specie.

Grande cinema. Applausi.


martedì 20 giugno 2017

I 400 colpi



Les quatre cents coups di François Truffaut, con il suo protagonista Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) rappresenta una tra le più vibranti,partecipate ed efficaci trasposizioni cinematografiche delle inquietudini,delle ribellioni,della incomunicabilità e solitudine profonda, che accompagna la fase esistenziale dell'adolescenza. Partendo dal dato autobiografico, quasi perfettamente sovrapponibile a quello del personaggio del giovane Doinel; Truffaut interpretando il malessere dell'adolescenza, demistifica l'eden descritto dal cinema dominante de papa e da tanta letteratura,e fa assumere al film una valenza paradigmatica del senso più complessivo della fase adolescenziale. Nel giovane Antoine Doinel, convive la sintesi della spontaneità e della fragilità,collocata però nel ritratto desolante e disarmante della famiglia. Fin dalle prime inquadrature lo seguiamo,collocato in una posizione,anche fisicamente, aliena. Dorme infatti, in uno spazio angusto vicino alla porta d'ingresso, e quindi per evidenza non solo simbolica,vive nella considerazione della sua famiglia, una condizione di precaria provvisorietà.
Antoine è gioioso e vivace, ma la sua natura si scontra continuamente contro il muro dell'anaffetività materna. La madre Gilberte, che ha vissuto in giovane età, la sua gravidanza illegittima come una iattura; lo tollera malamente. Per superficialità, e perché in fondo lei stessa, vive una condizione di frustrazione che la pone sullo stesso piano di immaturità di Antoine; al quale invece, dovrebbe garantire attenzione,comprensione e amore. La madre Gilberte,nella massima espressione consentita dalla sua affettività, risponderà alle richieste di attenzione di Antoine,solo con delle opportunistiche offerte di complicità amicale. A questo proposito,è illuminante la scena dello scambio di favori che propone ad Antoine:mille franchi,come premio per un buon voto al tema scolastico; ma in realtà, per comprare il silenzio di Antoine che l'ha vista baciarsi con l'amante. Opportunamente, la scena è girata in campi e controcampi molto ravvicinati,che sottolineano l'ambigua veridicità del patto. Anche nella figura apparentemente più disponibile;quella del patrigno che lo ha adottato, Antoine non può confrontarsi. Perché anch'egli,risulta figura imbrigliata nelle meschinità quotidiane, e limitata da vigliaccheria, se non da vera e propria cecità culturale. La scuola con le figure degli insegnanti, e via via tutte le figure che rappresentano l'Autorità, non fanno che aggiungere incomprensione e repressione impositiva, alle istanze di Antoine. Fino al decisivo imprimatur,che lo condanna a”ragazzo socialmente incline a delinquere”. Di lì a poco infatti,un poco convinto tentativo di furto, gli aprirà le porte della prigione e del riformatorio, con buona pace dei genitori e delle autorità tutte. Ma non è tutto compromesso,nella vita di Antoine; c'è fortissimo, il valore dell'amicizia: impersonato dal coetaneo René, unica figura sulla quale poter sempre contare. E l'amicizia con il coetaneo, sarà infatti l'ancora di Antoine per tutto il film, sostenendolo e proteggendolo dall'incomprensione del mondo adulto. L'altro elemento imprescindibile per Antoine: è la strada, e la stessa Parigi:vista come territorio elettivo, dove poter experire se stessi. La strada ce lo farà vedere bighellonare, correre, raccogliere confidenze, ascoltare quel mondo altro, pulsante,che si contrappone alla chiusura claustrofobica della famiglia. E per la strade della città, incontriamo(come in tutti i film di Truffaut) l'altro elemento:quello del cinema; luogo accogliente,e nel quale potersi liberamente perdere. La strada dunque, come luogo dell'anima: dove l'autorità del professore di ginnastica in uscita con la classe, perderà progressivamente -in vicoli ed anfratti- tutta la coda di alunni. Tutto ,beffardamente ed impietosamente inquadrato in una ripresa dall'alto, così da rendere, quanto mai efficace, la distanza incolmabile con il mondo adolescenziale,che si pretende di educare come un plotone di soldati. E da quelle stesse strade,così pesantemente investite di valori affettivi, che gli hanno consentito di respirare l'ossigeno vitale di cui è sempre stato in deficit. Da quelle strade,Antoine,si separerà dietro le grate di un cellulare, mentre va in riformatorio. E sarà l'unica volta che lo vedremo piangere. In riformatorio,misurerà il vuoto che ormai lo separa da un mondo percepito come estraneo e dall'unico affetto, quello di René, ormai perduto. Non resta che un ultima, lunghissima carrellata a mostrarcelo in fuga, ancora una volta. Ma la fuga verso il mare mai conosciuto,e che nella sua evidente simbologia è presente come anelito in tutto il film: si porta dietro, una nuova consapevolezza. E nell'incontro/ricongiungimento finale con il mare/madre che profila il vero inizio della sua vita da adulto,finalmente libero; la macchina da presa, mostra Antoine che si ritrae dall'acqua, e stringe sul suo volto, consegnandocelo in un fermo immagine.

A noi che lo guardiamo,la possibilità di rispecchiarci in quel volto; di ritrovarci e sentirci invecchiati, nel ritrovare i segni che l'esperienza ha lasciato in noi. E poter scegliere tra due possibili interpretazioni di quello sguardo: la scoperta della fine dell'illusione, e quindi il contatto col limite, o come un'affermazione di libertà, di una possibilità di salvezza,e quindi di speranza.
Un bellissimo progetto da condividere e sponsorizzare.
Visitate il sito di Lorenza Anselmi,fate e fatevi un regalo.

http://www.ringraziarevoglio.it/










Ringraziare voglio il divino
labirinto degli effetti e delle cause
per la diversità delle creature
che compongono questo singolare universo,
per la ragione, che non cesserà di sognare
un qualche disegno del labirinto,
per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse,
per l’amore, che ci fa vedere gli altri
come li vede la divinità,
per il saldo diamante e l’acqua sciolta,
per l’algebra, palazzo dai precisi cristalli,
per le mistiche monete di Angelus Silesius,
per Schopenhauer,
che forse decifrò l’universo,
per lo splendore del fuoco
che nessun essere umano può guardare senza uno stupore antico,
per il mogano, il cedro e il sandalo,
per il pane e il sale,
per il mistero della rosa
che prodiga colore e non lo vede,
per certe vigilie e giornate del 1955,
per i duri mandriani che nella pianura
aizzano le bestie e l’alba,
per il mattino a Montevideo,
per l’arte dell’amicizia,
per l’ultima giornata di Socrate,
per le parole che in un crepuscolo furono dette
da una croce all’altra.
per quel sogno dell’Islam che abbracciò
mille notti e una notte,
per quell’altro sogno dell’inferno,
della torre del fuoco che purifica,
e delle sfere gloriose,
per Swedenborg,
che conversava con gli angeli per le strade di Londra,
per i fiumi segreti e immemorabili
che convergono in me,
per la lingua che, secoli fa, parlai nella Northumbria,
per la spada e Tarpa dei sassoni,
per il mare, che è un deserto risplendente
e una cifra di cose che non sappiamo,
per la musica verbale dell’Inghilterra,
per la musica verbale della Germania,
per l’oro, che sfolgora nei versi,
per l’epico inverno,
per il nome di un libro che non ho letto: Gesta Dei per Francos
per Verlaine, innocente come gli uccelli,
per il prisma di cristallo e il peso d’ottone,
per le strisce della tigre,
per le alte torri di San Francisco e dell’isola di Manhattan
per il mattino nel Texas,
per quel sivigliano che stese l’Epistola Morale
e il cui nome, come egli avrebbe preferito, ignoriamo,
per Seneca e Lucano, di Cordova,
che prima dello spagnolo scrissero
tutta la letteratura spagnola,
per il geometrico e bizzarro gioco degli scacchi,
per la tartaruga di Zenone e la mappa di Royce,
per l’odore medicinale degli eucalipti,
per il linguaggio, che può simulare la sapienza,
per l’oblio, che annulla o modifica il passato,
per la consuetudine,
che ci ripete e ci conferma come uno specchio,
per il mattino, che ci procura l’illusione di un principio
per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia,
per il coraggio e la felicità degli altri,
per la patria, sentita nei gelsomini
o in una vecchia spada,
per Whitman e Francesco d’Assisi, che scrissero già questa poesia,
per il fatto che questa poesia è inesauribile
e si confonde con la somma delle creature
e non arriverà mai all’ultimo verso
e cambia secondo gli uomini,
per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli
perché moriva così lentamente,
per i minuti che precedono il sonno,
per il sonno e la morte,
per due tesori occulti,
per gli intimi doni che non elenco,
per la musica, misteriosa forma del tempo.

Jorge Luis Borges


mercoledì 22 marzo 2017

Primo giorno di primavera


"...in un luogo dove non ho mai viaggiato,gioioso 
oltre ogni dire,i tuoi occhi hanno un loro silenzio:
nel tuo più fragile gesto ci sono cose che mi racchiudono,
o che io non posso toccare perché troppo vicine

una tua impercettibile occhiata senza sforzo mi schiuderà
sebbene io abbia chiuso me stesso come un pugno,
sempre petalo dopo petalo mi apri come la Primavera apre
(toccando sapientemente, misteriosamente)la sua prima rosa

ma se tu vorrai chiudermi,io e la mia vita
ci chiuderemo magnificamente,improvvisamente,
come quando il cuore di questo fiore immagina
la neve ovunque prudentemente posarsi;

niente di ciò che ci è dato percepire al mondo eguaglia
la forza della tua intensa fragilità:la cui trama
mi avvolge con il colore delle sue terre,
restituendo la morte e l’eternità ad ogni respiro

(io non lo so che cosa c’è in te che chiude
e apre;ma qualcosa in me sente che
la voce dei tuoi occhi è più profonda di tutte le rose)
nessuno,nemmeno la pioggia,ha mani tanto piccole.

(da E.E.Cummings)