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lunedì 12 ottobre 2015

Il modo tuo d'amare


Il modo tuo d’amare
è lasciare che io t’ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sono offrirmi le labbra
perché io le baci.
Mai parole e abbracci
mi diranno che esistevi
e mi hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi,
mappe, telefoni, presagi;
tu, no.
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze
quella solitudine immensa
d’amarti solo io.
Pedro Salinas

venerdì 25 settembre 2015

Nuovolosità


In mattinata si manifestarono
due o tre malinconie
a cui nel pomeriggio
sopraggiunse una terza,
a sera quando si temeva
che le malinconie si tramutassero
in tristezza irreversibile,
la memoria senza nostalgia
cominciò a produrre anticorpi.
Visto da qua è aldilà
da là è aldiquà
se invece sbagliando
finissimo nell’aldilì?
Vedremmo attoniti un qui
fissi nell’aldilì
anche se in realtà
noi non possiamo venire
che dall’aldiquà
perché siam destinati all’aldilà
per tautologica omertà,
venendo dall’aldiquì
potremmo sbattere nel dilì
più in là dell’aldilà
e là più non si sa
se più vicino al dunque
è l’ aldilì o l’aldilà,
comunque di colà.
Vito Riviello
da “Monumentànee” 1992


venerdì 14 agosto 2015

I fiori "immorali" di Aldo Palazzeschi


I Fiori

Non so perché quella sera,
fossero i troppi profumi del banchetto...
irrequietezza della primavera...
un’indefinita pesantezza
mi gravava sul petto,
un vuoto infinito mi sentivo nel cuore...
ero stanco, avvilito, di malumore.
Non so perché, io non avea mangiato,
e pure sentendomi sazio come un re
digiuno ero come un mendico,
chi sa perché?
Non avevo preso parte
alle allegre risate,
ai parlar consueti
degli amici gai o lieti,
tutto m’era sembrato sconcio,
tutto m’era parso osceno,
non per un senso vano di moralità,
che in me non c’è,
e nessuno s’era curato di me,
chi sa...
O la sconcezza era in me...
o c’era l’ultimo avanzo della purità.
M’era, chi sa perché,
sembrata quella sera
terribilmente pesa
la gamba
che la buona vicina di destra
teneva sulla mia
fino dalla minestra.
E in fondo...
non era che una vecchia usanza,
vecchia quanto il mondo.
La vicina di sinistra,
chi sa perché,
non mi aveva assestato che un colpetto
alla fine del pranzo, al caffè;
e ficcatomi in bocca mezzo confetto
s’era voltata in là,
quasi volendo dire:
"ah!, ci sei anche te".
Quando tutti si furono alzati,
e si furono sparpagliati
negli angoli, pei vani delle finestre,
sui divani
di qualche romito salottino,
io, non visto, scivolai nel giardino
per prendere un po’ d’aria.
E subito mi parve d’essere liberato,
la freschezza dell’aria
irruppe nel mio petto
risolutamente,
e il mio petto si sentì sollevato
dalla vaga e ignota pena
dopo i molti profumi della cena.
Bella sera luminosa!
Fresca, di primavera.
Pura e serena.
Milioni di stelle
sembravano sorridere amorose
dal firmamento
quasi un’immane cupola d’argento.
Come mi sentivo contento!
Ampie, robuste piante
dall’ombre generose,
sotto voi passeggiare,
sotto la vostra sana protezione
obliare,
ritrovare i nostri pensieri più cari,
sognare casti ideali,
sperare, sperare,
dimenticare tutti i mali del mondo,
degli uomini,
peccati e debolezze, miserie, viltà,
tutte le nefandezze;
tra voi fiori sorridere,
tra i vostri profumi soavi,
angelica carezza di frescura,
esseri puri della natura.
Oh! com’ è bello
sentirsi libero cittadino
solo,
nel cuore di un giardino.
- Zz... Zz…
- Che c’è?
- Zz... Zz...
- Chi è?
M’avvicinai donde veniva il segnale,
all’angolo del viale
una rosa voluminosa
si spampanava sulle spalle
in maniera scandalosa il décolleté.
- Non dico mica a te.
Fo cenno a quel gruppo di bocciuoli
che son sulla spalliera,
ma non vale la pena.
Magri affari stasera,
questi bravi figliuoli
non sono in vena.
- Ma tu chi sei? Che fai?
- Bella, sono una rosa,
non m’hai ancora veduta?
Sono una rosa e faccio la prostituta.
- Te?
- Io, sì, che male c’ è?
- Una rosa!
- Una rosa, perché?
All’angolo del viale
aspetto per guadagnarmi il pane,
fo qualcosa di male?
- Oh!
- Che diavolo ti piglia?
Credi che sien migliori,
i fiori,
in seno alla famiglia?
Voltati, dietro a te,
lo vedi quel cespuglio
di quattro personcine,
due grandi e due bambine?
Due rose e due bocciuoli?
Sono il padre, la madre, coi figlioli.
Se la intendono... e bene,
tra fratello e sorella,
il padre se la fa colla figliola,
la madre col figliolo...
Che cara famigliola!
È ancor miglior partito
farsi pagar l’amore
a ore,
che farsi maltrattare
da un porco di marito.
Quell’oca dell’ortensia,
senza nessun costrutto,
si fa sì finir tutto
da quel coglione
del girasole.
Vedi quei due garofani
al canto della strada?
Come sono eleganti!
Campano alle spalle delle loro amanti
che fanno la puttana
come me.
- Oh! Oh!
-  Oh! ciel che casi strani,
due garofani ruffiani.
E lo vedi quel giglio,
lì, al ceppo di quel tiglio?
Che arietta ingenua e casta!
Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta.
- No! No! Non più! Basta.
- Mio caro, e ci posso far qualcosa
io,
se il giglio è pederasta,
se puttana è la rosa?
- Anche voi!
- Che maraviglia!
Lesbica è la vainiglia.
E il narciso, quello specchio di candore,
si masturba quando è in petto alle signore.
- Anche voi!
Candidi, azzurri, rosei,
vellutati, profumati fiori...
- E la violacciocca,
fa certi lavoretti con la bocca...
- Nell’ora sì fugace che v’è data...
- E la modestissima violetta,
beghina d’ogni fiore?
Fa lunghe processioni di devozione
al Signore,
poi... all’ombra dell’erbetta,
vedessi cosa mostra al ciclamino...
povero lilli,
è la più gran vergogna
corrompere un bambino
- misero pasto delle passioni.
Levai la testa al cielo
per trovare un respiro,
mi sembrò dalle stelle pungermi
malefici bisbigli,
e il firmamento mi cadesse addosso
come coltre di spilli.
Prono mi gettai sulla terra
bussando con tutto il corpo affranto:
- Basta! Basta!
Ho paura.
Dio,
abbi pietà dell’ultimo tuo figlio.
Aprimi un nascondiglio
fuori della natura!

Aldo Palazzeschi
(da L'Incendiario)

martedì 30 giugno 2015

David Grossman

È una legge non scritta: chi vuol starmi vicino deve assumersi la responsabilità della mia anima. Perché qualunque idiota può capire come sia facile uccidermi. Uno sguardo ben mirato basterebbe. Non sto scherzando. Sono convinto che da qualche parte, dentro di me, c'è un punto vulnerabile che chiunque, anche uno sconosciuto, può vedere e colpire. Eliminarmi con una parola.
 (Che tu sia per me il coltello)

lunedì 22 giugno 2015

A Laura



La rosa non colta, ha riavvolto il suo senso
stamattina/
avviluppando i pochi petali sparsi in terra
intorno al fragile bocciòlo.
Se n'è partita/
pura/
a mezzo del suo avvizzito sbocciare.
Il bicchiere pieno d'acqua,
ancora a guardia del tavolo.

martedì 9 giugno 2015

A Dora Markus e le sue gambe









Forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima:
un topo bianco,
d’avorio; e così esisti! 
 
Eugenio Montale.


sabato 23 maggio 2015

Garrone seduce e incanta,dipingendo pulsioni ancestrali e moderne. Il racconto dei racconti


Nell'approcciare l'ultimo film di Garrone, tratto dal secentesco “Lo cunto de li cunti”del napoletano Basile, bisognerebbe staccarsi mentalmente ed emotivamente dall'idea di fantasy così come è proposto oggi nel cinema mainstream. Garrone infatti, utilizza tre delle cinquanta favole-cunti,(Lo police,La donna scortecata e La cerva fatata)solo come spunto iniziale per approntare il “suo” film, che del tessuto narrativo archetipico delle favole in genere,e di quelle di Basile nel caso, accoglie principalmente i caratteri essenziali della universalità atemporale e della carnalità più umana e ferina, frequente terreno di incontro-scontro, con il magico ed il surreale.La scelta che traduce questo humus narrativo di partenza, in linguaggio cinematografico, è poi di assoluta libertà autoriale,e ci immerge nel personalissimo immaginario visuale del regista,popolato di temi e simbolismi che hanno caratterizzato tutti i suoi film precedenti.Nelle tre storie percepite come un'unicum,sebbene separate,confluiscono intrecciandosi i tòpoi del cinema di Garrone: la trasformazione del corpo, i meandri della mente, l'amore coercitivo,la solitudine ineluttabile,l'arroganza del potere,e l'inganno usato per imbrigliare la libertà e l'emancipazione.Tutta una materia favolistica- e incandescente per definizione-sia essa umana o bestiale, che nel delineare i suoi personaggi ne scarnifica i valori e mette a nudo gli istinti primordiali fino a renderli entrambi attigui e poco distinguibili. Garrone tratteggia con gusto e capacità pittorica squisita(è nota la sua formazione artistica),sullo sfondo iperrealistico di paesaggi e scenari reali(tutti italiani),il tempo sospeso dell'incanto;sostenuto dalla fotografia dello straordinario Peter Suschitzky. L'alto e il basso, il mostruoso e il bizzarro convivono nei tre racconti con la normalità fatta di dettagli e realtà minimale,in un equilibrio composito che Garrone rispecchia dalle parole di Basile: “l'equilibrio del mondo richiede d'esser mantenuto” e lo sarà, soprattutto attraverso il prezzo del coraggio e sacrificio”. Ma Garrone lavora anche per sottrazione, perchè non carica come ci si aspetterebbe,con una partecipazione sentimentale e di sguardo il film o i personaggi; ma mantiene una distanza con quanto rappresentato, che sembra solo in apparenza, condizionare il ritmo o l'adesione emozionale al film;
in realtà, consegna attraverso questa voluta distanza allo spettatore,quasi cristallizzandoli,il senso dello stupore e l'ammirazione che dovrebbe conseguirne.
Il film regala scene ed immagini di potente suggestione e bellezza,tra le tante:il duello subacqueo tra il re e il drago marino(le meravigliose gole dell'Alcantara in Sicilia), ed il fermo immagine di un ponte sospeso che è la sintesi perfetta di quanto detto,a proposito della capacità pittorica di Garrone. La bella colonna sonora di Desplat, lascia opportunamente spazio ai silenzi parlanti del film.
Il cast d'eccellenza straniero(Salma Hayek,John C.Reilly,Toby Jones, Vincent Cassell) giustificato dalla coproduzione internazionale, non dice niente di nuovo a quanto già conosciuto.
Promette bene, l'esordiente Bebe Cave, nel ruolo della principessa Viola.
Bravi, con la sempre presente(ma ce ne siamo fatti ormai una ragione) Alba Rohrwacher, il redivivo Massimo Ceccherini, e Renato Scarpa.
Un film coraggioso (il film è prodotto anche dallo stesso Garrone) e originale, una rilettura personalissima e per certi versi spiazzante, del genere fantasy. Che rimanda nel ricordo a certo cinema di Pasolini(le favola iperrealistica di Uccellaci e Uccellini) e al visionario esperimento formale de I colori della passione di Lech Majewski.
Un regista che ama le sfide e non si adagia al consenso Garrone.
E questa personale riproposizione della fabula (con la sua valenza educativa e terapeutica),resta all'ammirazione
di una umanità che oggi più che mai, sembra aver smarrito la sua pietas.

Da non perdere




venerdì 22 maggio 2015

Pas son genre

Non sono barriere architettoniche ma culturali, quelle che separano Jennifer (Émilie Dequenne) e Clément Le Guer (Loïc Corbery);lei solare parrucchiera nella cittadina di Arras e lui professore di filosofia,che ad Arras  è finito per un malaugurato trasferimento dall’amata Parigi. Dal romanzo di Philippe Vilain “Pas son genre” (edito in Italia da Gremese ed.col titolo Non il suo tipoLucas Belvaux ex attore oggi originale regista a tempo pieno, trae con raffinata maestrìa e grazia tutta francese(ma belga di nascita nda),un interessante capitolo cinematografico sull’eterno argomento dell’amore in coppia. Osserva  l’incontro/scontro dialettico-sentimentale tra due condizioni sociali, due culture e le diverse aspettative dei due protagonisti.B.lascia trasparire i diversi punti di vista e i pregiudizi che i protagonisti hanno l’uno verso l’altro, riuscendo a non essere partigiano e restituendo allo spettatore la poliedricità del loro “discorso amoroso”; nonchè lo spessore e la profondità che scaturiscono dall’osservare le loro reazioni,in special modo di Jennifer,che le esprime in maniera mai banale o scontata.Una messinscena che lascia libero lo spettatore nel suo giudizio, pur lasciandolo empaticamente coinvolto da una suspence emotiva che ha il suo clou nel bellissimo finale.L’algido e cinico  Clément intepretato dall’ottimo Corbery, tra una lezione di filosofia impartita ai suoi studenti  ed una lettura di Kant imposta a Jennifer, passa dalla noia iniziale della vita di provincia, all’inaspettato coinvolgimento erotico che gli offre la conoscenza della seducente coiffeuse. Apparentemente,sempre più disposto ad affacciarsi nel mondo di Jennifer fatto di piccole cose: come cantare al karaoke e interessarsi alla vita dei vip aggiornata sui rotocalchi rosa . Jennifer d’altro canto,con la sua spontanea solarità unita ad un pragmatismo rodato dalla indipendente e coraggiosa esperienza di madre separata con un bambino, inizia ad incrinare il muro di provvisorietà,che gli oppone e dietro il quale, si nasconde  Clément:-J.“Dicono che in una coppia c’è sempre uno che ama più dell’altro.Tu ci credi?”-C.”Non lo so non mi sono mai posto la questione”-J.”Ecco, il signor-so-tutto diventa il signor non lo so!come ti spieghi che un uomo che sa tante cose non sa niente riguardo ai sentimenti?”e Clément a Jennifer:-” Dei libri mi hanno cambiato la vita. E tu l’hai cambiata alle ragazze a cui hai cambiato acconciatura”.Contrariamente alle molte donne del suo ambiente parigino, che ha lasciato perchè “l’amore non deve trasformarsi in una prigione”;Clément percepisce,anche se in maniera molto labile, che forse J. potrebbe essere quella giusta: la donna, che sembra aver disattivato la modalità di cinica anafettività che regna nella sua vita. Ma un giorno accade che un libro scoperto per caso in libreria, scuote Jennifer, completamente asservita per amore a  Clément, e la induce a rielaborare il suo percorso sentimentale,delegando alle parole di una canzone di Gloria Gaynor lo struggente messaggio che idealmente, ha come ultimo destinatario Clément, ma è anche il coraggioso e probabile incipit di una nuova e più consapevole  rinascita come donna.Émilie Dequenne,è la strepitosa interprete di Jennifer,che malgrado la bravura del collega Loïc Corbery nei panni del non simpaticissimo  Clément, ruba la scena per buona parte del film regalandoci con una adesione totale e fisica al personaggio, alcune scene di rara intensità interpretativa.Già premiata in passato come miglior attrice,da esordiente assoluta, per Rosetta dei Dardenne; la Dequenne disegna con Jennifer un ritratto di donna che si muove tra i canoni più classici con una modernità assoluta.Attrice non prolifica, può vantare di avere ora al suo attivo due indimenticabili interpretazioni. Mentre la regia di Belvaux pone sotto i riflettori un interessante regista,che converrà tenere sempre più d’occhio, in futuro.

Da non perdere.

lunedì 30 marzo 2015

Do not go gentle into that good night

Do not go gentle into that good night,

Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.

Though wise men at their end know dark is right,
Because their words had forked no lightning they
Do not go gentle into that good night.
Good men, the last wave by, crying how bright
Their frail deeds might have danced in a green bay,
Rage, rage against the dying of the light.
Wild men who caught and sang the sun in flight,
And learn, too late, they grieved it on its way,
Do not go gentle into that good night.
Grave men, near death, who see with blinding sight
Blind eyes could blaze like meteors and be gay,
Rage, rage against the dying of the light.
And you, my father, there on the sad height,
Curse, bless me now with your fierce tears, I pray.
Do not go gentle into that good night.
Rage, rage against the dying of the light.

Non andare docile in quella buona notte,
I vecchi brucino infervorati quando è prossima l’alba;
Infuriati, infuriati contro il morente bagliore.
Benché i savi infine ammettano ch’era giusta la tenebra
Poiché le loro labbra nessun fulmine scagliarono
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli onesti, nell’onda ultima, urlando quanto fulgide
Le fragili opere potevano danzare in verdi anse
Infuriano, infuriano contro il morente bagliore.
I bruti che strinsero e cantarono il sole in volo,
E tardi appresero d’averne afflitto il corso,
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, morenti, scorgendo con vista cieca
Che gli occhi infermi splendono e gioiscono come bolidi
Infuriano, infuriano contro il morente bagliore.
E tu, padre mio, là sulla triste altura, ti prego,
Condannami, o salvami, ora, con le tue fiere lacrime;
Non andare docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morente bagliore.
DYLAN THOMAS
(Il problema di questa poesia è principalmente nel ritmo, trattandosi di una villanella, componimento che, nell’originale, è un vero e proprio canto)



Una nuova amica


                                 
                                    I mille travestimenti del desiderio.

Una nuova riflessione rivolta ancora all'universo femminile, quella che propone l'ex enfant prodige François Ozon, prendendo spunto dal romanzo di Ruth Rendell dal titolo omonimo.
Un'amicizia sugellata dal sangue fin dall'infanzia, quella che lega Claire e Laura(Anaïs Demoustier e Isild Le Besco),sebbene vissuta da Claire sempre all'ombra e al traino dell'amica. Dopo il matrimonio quasi in sincronia, la morte di Laura che segue la nascita della piccola Lucie, interrompe la simbiosi; lasciando Claire profondamente disorientata ma decisa a rimanere presente nella vita della piccola e del vedovo David(Romain Duris).
Una visita a casa della defunta, qualche giorno dopo i funerali, rivelerà a Claire l'unico segreto non condiviso dall'amica; quello che riguarda l'abitudine sporadica di David di travestirsi da donna. Dalla sorpresa e dal rifiuto immediato nell'accettare le motivazioni di David, Claire passerà dopo poco, a condividere una tenera complicità con la “nuova amica” Virginia. Così infatti, battezza la nuova identità di David, mentendo e nascondendo il tutto al marito Gilles(Raphaël Personnaz).Per i due, inizia un periodo spensierato e leggero, che attraverso una rielaborazione del proprio vissuto, tra uno shopping e una seduta di depilazione, li porterà a riappropriarsi dei loro desideri più profondi e sentiti. Approfittando di una vacanza in campagna, guadagnata con una bugia detta a Gilles e lontani fisicamente dalla realtà quotidiana; David/Virginia e Claire, si abbandonano totalmente al fluire naturale dei desideri che fino ad allora e per motivi diversi, avevano soffocato. Scoprendo durante una particolare serata in discoteca,complice la musica, la piacevolezza di pulsioni nuove ed inaspettate.
Vivono così e per la prima volta, l'ebbrezza di un sentimento di assoluta libertà, che sembra avvicinare entrambi ad una reale rinascita delle loro identità ,identità libere e progressivamente sempre più affrancate,che il regista mostra senza contorni e volutamente non definite.
Ma Claire mostra di dover fare ancora i conti con qualche ombra interiore che fa capolino dal passato,soprattutto dopo l'incidente occorso a David che sconvolge tutti con la sua rivelazione..
Il divertissement di Ozon ha questa volta i colori del mèlo, che dopo una partenza promettente, lascia via via chi si aspettava colpi di scena e snodi empaticamente emozionanti, sempre più delusi. La favola che lascia fuori
il mondo, relegando al marito incolore Gilles e alle figurine ridicole dei suoceri il compito di rappresentare la società ipocrita e repressiva (Aurore Clément e Jean-Claude Bolle Reddat),non sembra questa volta del tutto riuscita.
Dopo la bellissima accoppiata regalataci con Nella casa e Jeune et Jolie, Ozon pur mantenendosi coerente allo stile di lucido ed originale scompaginatore, che contraddistingue la sua evidenza cinematografica; questa volta non è sorretto nè dalla sceneggiatura nè dalla consueta fluidità registica che si adeguano opportunamente a quel che vuole rappresentare. Tant'è che la patinata fotografia e le lacune di sceneggiatura, consentono più di un momento di noia e prevedibilità.Le azioni dei personaggi per i quali,il regista ha voluto scientemente evitare qualsiasi implicazione e conseguenza sociale di approfondimento,finiscono così per risultare lontani ed irrimediabilmente freddi,ingessati ed incapaci di suscitare reale empatia o emozione.La tensione ed il ritmo risultano progressivamente compromessi, ad eccezione degli unici momenti significativamente più riusciti:quello nella discoteca gay sulle note di “Une femme avec toi”e successivamente,sulla stessa musica, in ospedale al capezzale di David. Solo in queste due scene fa capolino l'Ozon che amiamo e che sa regalare autentici brividi di vita.
Dispiace per l'occasione mancata che da luogo ad un pastiche,dove Freud convive irrisolto con richiami glam del miglior Hitchcock, senza avere del grande maestro né il ritmo tensivo né la vitale leggerezza.
Citiamo il lodevole lavoro degli interpreti tutti bravi, a cominciare da Anaïs Demoustier a Romain Duris.
Ma se un film è sempre,in qualche modo,racchiuso nel suo finale; personalmente, questo non ha fatto altro che confermarne le perplessità.
Al prossimo giro!Certi del tuo grande talento.

Da vedere


martedì 24 marzo 2015

Vizio di forma (Inherent Vice)


    Il ponte sospeso del desiderio,tra sogno e risveglio,nei colorati anni70'.

Di non facile approccio questo Vizio di Forma,ultimo capitolo nella filmografia di Paul T. Anderson;
tratto dall'omonimo racconto di Thomas Pyncheon, monolite e scheggia impazzita della letteratura post moderna americana . Ma al Nostro non difetta evidentemente nè coraggio nè il gusto della sfida, se ha deciso di misurarsi con lo scrittore meno catalogabile e dalla scrittura più stratificata e camaleontica della letteratura americana negli ultimi 30 anni. Il personaggio di Sortilège(la cantautrice ed arpista Johanna Newsom) voice over di tutto il film ed all'uopo presenza in carne ed ossa; è il Virgilio che ci introduce,sullo sfondo della spiaggia di Gordita Beach in California, nella vita del detective “fattone”Doc Sportello(uno strepitoso Joaquin Phoenix).
E dalle nebbie di un passato felice e mai oscurato nel ricordo,compare all'improvviso la ex Shasta Fay(rivelazione Caterine Waterston), che gli chiede aiuto per indagare sulla scomparsa del suo attuale amante, il miliardario Mickey Wolfmann(Eric Roberts),supponendo un complotto ordito dalla moglie per eliminarlo e nel quale coinvolgerla.
Questo l'incipit che mette in moto il “viaggio” di Doc per dipanare il caso, e lo porterà ad interloquire con il poliziotto irrisolto "Bigfoot" Bjornsen(l'ottimo Josh Brolin),il sassofonista tossico e spia in incognito Coy Harlingen(un candido Owen Wilson),la disinvolta procuratrice ed attuale compagna Penny Kimball(Reese Witherspoon), l'amico avvocato Sauncho Smilax(Benicio Del Toro),il capo di una lobby di dentisti Rudy Blatnoyd(Martin Short), ed una fantasmagorìa di bizzarri e colorati personaggi che faranno da contrappunto ritmico allo svolgersi del racconto.
Il viaggio di Doc nella California simbolo e contenitore di tutte le istanze dell'America dei Seventines, che segue con la sua ubriacatura,i favolosi 60,anni del sogno e della possibilità; procede attraverso i colori di una realtà lisergica,filtrata dall'espressione degli occhi sgranati di Doc, in continua oscillazione tra l'incredulità divertita(e si ride molto in buona parte del film) e lo smarrimento impotente. L'interazione di Doc con gli altri protagonisti,costituisce per l'indagine, ora una sosta, ora una digressione, ora un diversivo depistante. Con una serie di rimandi continui ad altri possibili percorsi e scenari,e con l'insorgere di nuovi dubbi e sorprese eventuali ed inaspettate. Pur considerando i richiami letterari e cinematografici nel solco del noir, che vanno dal Chandler più classico, alla rilettura del Lungo addio fatta da Altman,e del quale Anderson ha sempre dichiarato di sentirsi figlio; Doc mostra un atteggiamento in parte ancora non disincantato, come molti dei personaggi che lo circondano, e questo consente ad entrambi, una distanza spensieratamente autarchica,una sorta di collocazione atemporeale ed ironica del proprio“sentire”; pur trovandosi totalmente immersi nella realtà storica dell'America dove si incrociano ed incombono cupamente,le figure di Nixon e della setta Manson .Gli stretti primi piani, usati per lo più da Anderson nel film insieme a campo e controcampo, ci riportano al disegno sostanziale di una geografia dell'anima che vuol “sentire”, al di là della storia nella quale è inserita. E' un territorio di confine,il luogo dove Doc vagheggia pur sapendolo impossibile, il ritorno “ad un giorno di pioggia dove con Shasta è stato felice, senza perchè e senza preavviso”. E' lì, che malinconicamente mentre sussiste un risveglio straniante, si anela contemporaneamente un impossibile ritorno;nella consapevolezza finale che può portare soltanto,”a fare del nostro meglio”. Il film sembra senz'altro cogliere il mood, sospeso e cristallizzato in questa tensione dell'anima verso una condizione inconsapevolmente felice, che sappiamo ormai pregiudicata e lontana.Lo stesso Doc reca scritto,quasi a monito, sulla porta del suo ufficio LSD. E l'acronimo,in questo caso ,sta per Localizzazione, Sorveglianza,Discrezione. Quasi un'anticipazione della feroce restaurazione che di lì a poco avrebbe annientato quelle pulsioni,travolgendo l'America e non solo.
Va sottolineato il lavoro meticoloso di ricostruzione degli anni 70, nei costumi nelle scenografie e nella splendida fotografia di Robert Elswit, che si muove tra le nebbie delle luci a neon ed i colori di una solare California; esaltata ad hoc peraltro , dall'uso del 35 mm. Evocative e puntuali le musiche di Jonny Greenwood, con la canzone cameo di Neil Young “Journey Through the Past”.
E' da ritenersi senz'altro colpevole, chi non riconoscendo la grandezza di questo film,lo ha ascritto ad uno dei minori di Anderson. Ed ancor più incomprensibile, risulta la mancata candidatura di Phoenix
agli oscar.
Da vedere






sabato 21 marzo 2015

PRIMAVERA







Ritornare al denso, splendido tepore/
che richiama il cielo invitto,
dinanzi Giotto,solidale.
Di consueto/
si torna a cavalcare abbagli/
pollòni imperiosi, dell'età divina/
mentre dolci nostalgie, vanno ritemprandosi/

in opportuni sogni.
©®

mercoledì 11 marzo 2015

Noi e la Giulia: un agriturismo(forse) ci salverà.


Alla sua terza prova come regista, Edoardo Leo si conferma come uno tra i più originali e promettenti nomi della nuova commedia all’italiana; qui anche in veste di sceneggiatore ed interprete.
Il film nasce dal romanzo di Fabio Bartolomei “Giulia1300 e altri miracoli”, dove la Giulia del titolo, è un’auto attorno alla quale, ruoteranno molti degli inneschi comici del film. Protagonisti tre non  giovanissimi “losers”, (Luca Argentero, Edoardo Leo, Stefano Fresi) che spesa ogni energia e possibilità nella vita ricattatoria che  sola, sembra offrire la  grande città, decidono di attuare ciascuno, il proprio piano B.
L’idea, che il caso accomunerà, facendo incontrare i tre, è l’acquisto di un casale da ristrutturare nel verde della campagna per farne un agriturismo. A loro si unirà in seguito, il creditore Claudio Amendola, rivoluzionario d’antan e Anna Foglietta, hippye incinta e un po’ svanita. Superate le prime difficoltà sia di convivenza che caratteriali e aiutati da un provvidenziale vicino, contadino extracomunitario in Italia, ma con un passato da principe nel suo paese; i tre riceveranno alla vigilia dell’inaugurazione, la visita inaspettata di un bizzarro malavitoso (Carlo Buccirosso), che si presenterà a bordo di una macchina(la Giulia del titolo) accessoriata in maniera particolare…
Il film vuole ispirarsi alla grande tradizione dei personaggi monicelliani, velleitari e poveracci che solidarizzano facendo gruppo, all’ombra di una realtà disumana e disumanizzante che li respinge. Decidendo quindi di investire se stessi o quel che ne rimane,nel sogno,visto come alternativa possibile o piano di “riserva”. I personaggi in verità, soffrono un po’ gli stereotipi del caso e partono in leggero affanno anche dal punto di vista della coralità d’insieme, soprattutto negli snodi dove si potrebbe affondare e non lo si fa, dove si dovrebbe osare e si rimane un passo indietro. Singolarmente tutti bravi gli attori; da menzionare uno strepitoso Carlo Buccirosso che ahimè riesce a rendere simpatico anche un camorrista e la stralunata ma tenera Anna Foglietta.
Claudio Amendola poi, surreale comunista dal cazzotto d’oro, è protagonista di un esilarante momento cult del film,armato di falce e martello! Il film è ben girato e indulge solo nella parte finale in qualche ralenti di troppo. Magari gli avrebbe giovato qualche minuto in meno così come evitare qualche inutile ripetizione. Nell’insieme si lascia vedere con piacere e mostra la sempre maggiore disinvoltura del regista Leo, anche nel dirigere gli attori.
Dunque, tentativo originale e sufficientemente riuscito di affrancarsi da un cinema che insegue la risata per la risata.
Suggerisco agli spettatori ai quali questo film è piaciuto, un altro film, che sebbene molto diverso nelle intenzioni e nel mood, condivide con Io e la Giulia alcune interessanti suggestioni: Una piccola impresa meridionale, di Rocco Papaleo.
Forse, davvero un agriturismo ci potrà salvare.
Da vedere!

venerdì 20 febbraio 2015

Io,il maestro, e la batteria jazz: Whiplash

Prendete una delle scuole di Jazz più prestigiose d'America, prendete un ragazzo( Miles Teller) che vuole vedere all'orizzonte della vita, il suo nome scritto a caratteri cubitali. E prendete un insegnante( J.K Simmons), che non è disposto a risparmiare nulla ai suoi allievi, in termini di sacrificio, fino a rasentare il sadismo sia psicologico che fisico.Ed avrete gli ingredienti base, dell'esplosivo film del giovane regista Damien Chazelle.
Ultima scoperta, proveniente dal vivaio indie del Sundance festival, Chazelle si è ispirato alla sua personale esperienza giovanile, girando quello che era originariamente un corto. Dopo il buon successo, decide di riscriverlo e presentarlo come lungometraggio nell'edizione 2014 del Sundance festival,aggiudicandosi sia il premio del pubblico che della giuria.E delle produzioni dell'ultimo cinema indipendente americano, questo film condivide la particolare originalità di sguardo e prospettiva.Nel film la tradizionale e cinematografica dialettica maestro-allievo,sadismo incluso, e già riferita ai personaggi icona di Full Metal Jacket e Rocky, viene trasportata nell'ambito,certamente meno usuale della musica. E che musica! Sicuramente quella meno frequentata e che non ha mai brillato per simpatia e popolarità nei più:parliamo del jazz.
Persino lo strumento del giovane protagonista Andrew, cioè la batteria, rappresenta una sfida tout court della trama.
Tutta la storia del rapporto,tra il giovane e ambizioso Andrew ed il mefistofelico insegnante di musica Fletcher, si gioca, come una continua rincorsa ad alzare il limite, per il raggiungimento della posta in gioco.Mentre la trama che si tesse tra i due, mescola inganno e seduzione,senza esclusione di mezzi,e con continui colpi di scena.Il fine, unico obiettivo comune, resta sempre quello della realizzazione dell'eccellenza nell'arte. Stimolata con lo studio parossistico della batteria, e spinta ad emergere, per venire alla luce, in quanti hanno il dono di possederla.
Perchè all'arte, tutto può e deve, in certa misura, essere sacrificato. Le convenzioni di una società che ci vorrebbe tranquillamente adagiati in gratificazioni meno “esposte”,(la condizione di scrittore fallito del padre di Andrew,viene sadicamente derisa da Fletcher)e persino in questa fase, se distraenti, i sentimenti personali.
L'arte e il genio, con la sua unicità, “è figlia della violenza”,dice Fletcher, perchè solo attraverso essa, si diventa liberi dai limiti che la società vuole imporci. E ricorda al suo allievo continuamente,un aneddoto su Charlie Parker e le due parole, che sole, possono imprigionare per sempre il talento che è in noi. Quelle che dicono, che si sta facendo bene:”a good job”.
Alla stregua di un thriller anche un po' noir nei toni,e non privo di un sottile e caustico umorismo,il film procede con ritmo serrato tenendo incollati gli occhi il cuore e le orecchie al ritmo frenetico della batteria, assoluto terzo protagonista del film. Splendidamente fotografato, e montato in sincronia emotiva con il volto e i gesti di Fletcher, nonché al sudore e al sangue di Andrew che vengono,letteralmente,versati sui rullanti batteria. Il film si avvicina in un notevole crescendo emotivo al finale, che ci regala una delle più belle sequenze di tutto il film. Whiplash pone e invita a porci molte domande: su quali possano essere i limiti accettabili dell'insegnamento artistico, sul rapporto di potere tra insegnante e allievo(ma forse sul potere in assoluto), sul senso dell'arte e sul suo fine ultimo. Il tutto senza dare risposte e tenendosi lontano dal proporre soluzioni buoniste,ipocrite o falsamente consolatorie.
I personaggi di Andrew e Fletcher,infatti, si muovono in maniera lucida e coerente con le proprie finalità,senza aver paura di mostrare la propria cattiveria o la propria legittima ambizione.
Certamente,legittimati da un fine “alto”, e vissuto con coerente autenticità.
Whiplash, ci conduce e ci avvicina con impareggiabile maestrìa al senso più profondo della musica(non solo di quella jazz,che già di per sé, è notevole impresa),veicolando attraverso le splendide interpretazioni dei due interpreti (ma la menzione specialissima è tutta per J.K.Simmons),tutta la sua potenza deflagrante e liberatoria.
In assoluto uno dei migliori film del 2015, e uno dei più belli realizzati, sulla musica.
Se non l'avete già fatto,correte subito a vederlo.

Da non perdere.
 

Cosa abbiamo fatto al buon Dio?


E' il titolo originale di Non sposate le mie figlie!prima commedia di rilievo,del regista Philippe de Chauveron.
Ed è anche quello, che probabilmente si chiede Charles Verneuil insieme alla moglie Marie,quando pensa a tre delle sue quattro figlie, sposate in rapida successione rispettivamente ad un ebreo, un arabo,e un cinese.
Tutte le aspettative, maturate nell'alveo di una tranquilla vita borghese trascorsa nella provincia francese e suffragate dalle idee golliste di Charles, sono infatti, miseramente naufragate nella realtà di una Francia politicamente corretta, ed aperta alla piena integrazione razziale dei matrimoni misti.
Dopo le schermaglie iniziali ed i battibecchi pungenti, che vedono protagonisti non solo i Verneuil,ma uno contro l'altro, anche i tre generi; con la maggiore conoscenza, e progressivamente con la nascita dei nipotini; tutte le fratture sembrano ricomporsi,in un ecumenico abbraccio di ritrovata solidarietà ed armonia.
Ma le sorprese sono in agguato.
In occasione del Natale, l'ultima delle quattro sorelle, annuncia alla famiglia il prossimo matrimonio con un ragazzo francese e cattolico; risvegliando le speranze e il sogno mai sopito nei genitori, di avere finalmente in famiglia, un matrimonio “normale”...
La commedia di Chauveron utilizza tutti i tòpoi del genere, per rappresentare con mano leggera, le ansie e le contraddizioni della società francese più tradizionalista, repressa e contenuta nell'apparente politically correct. Proponendo nel contempo, ad un pubblico immaginato come trasversale, le rassicuranti certezze dell' ”Altro,” rappresentato come una figura, già ben inserita nella società francese. Infatti i tre mariti delle giovani Verneuil, svolgono professioni importanti per la comunità:essendo rispettivamente uno imprenditore,l'altro bancario ed il terzo, avvocato.
Nessun disoccupato, nessuna banlieu turba lo spettatore o inquina la superficie della trama. Ed il film risolve ogni possibilità d'approfondimento sul tema razzismo e integrazione multiculturale, con pochi graffi;lasciati soprattutto alle battute dei tre giovani uomini.
Non s'infierisce con cinica cattiveria dunque; preferendo invece toni più morbidi e concilianti.
Apertura e conciliazione, sono nel tratteggio di tutti i personaggi femminili ai quali con condivisibile generosità,
il regista- sceneggiatore attribuisce e affida per “vocazione”,questo ruolo .
Va ricordato che il film, campione d'incassi in patria, è uscito ben prima dei tragici fatti di Charlie Hebdo.
Sostenuto da un buon ritmo e da attori tutti simpaticamente in parte,C. confeziona un buon prodotto che pur non ambendo ad entrare nella storia(Indovina chi viene a cena, è lontano,e non soltanto cronologicamente),garantisce un'ora e mezza di gradevole spettacolo e più di una risata.
Restiamo sempre ammirati dalle capacità dei nostri cugini d'oltralpe, e dalla forza del loro sistema produttivo.
Sistema che li ha portati negli ultimi anni anni ad affermarsi non solo in patria con tanti successi, ma anche sui ben più difficili, mercati esteri. Con una continuità, ed un valore della loro cinematografia, che anche a livelli medi(soprattutto nelle commedie), mostra una qualità ancora molto lontana da quella delle nostre commedie.
E ricorda ancora una volta ai nostri amministratori culturali, sempre più latitanti,quanto ripaghi invece, investire sul valore fondante della cultura

A ognuno il suo Birdman.

Prosegue con Birdman il fortunato trend che vanta tra gli illustri predecedenti,seppure agli antipodi, The Player di Altman e il recente Maps to the stars di Cronenberg; a dimostrare ancora, quanto successo di critica e pubblico riscuotano Hollywood Broadway, e in generale il mondo dello spettacolo nella sua interezza, quando propongono una riflessione su se stessi e sui loro spesso perversi, meccanismi.
E' un feroce e caustico gioco al massacro,l'ultima fatica del messicano Iñárritu,che prosegue la marcia trionfale verso gli oscar,con un già ricco carnet di premi conquistati.
Il protagonista Riggan Thompson (Michael Keaton),attore in declino ma che ha conosciuto in passato il grande
successo nei panni di un pennuto supereroe,tenta il riscatto investendo tutto se stesso, nell'allestimento teatrale a Broadway di un testo di R. Carver. Credendo,di poter dimostrare a se stesso e al pubblico, il “vero” attore che si cela dietro la maschera del supereroe. Sarà ostacolato in questo percorso dal suo alter ego pennuto, che lo accompagnerà come scomoda coscienza critica, portandolo in un percorso ad ostacoli, a conseguenze estreme quanto imprevedibili.A completare il cast sulla scena e nella vita di Riggan:un cinico produttore nonché avvocato personale(Zac Galifianakis) ,un attore osannato dalla critica che renderà dura la vita a tutta la compagnia (Edward Norton candidato all'oscar),la figlia fresca di rehab ed in defict d'affetto paterno(Emma Stone candidata all'oscar)la prima attrice perennemente insicura(Naomi Watts),l'attrice ed amante trascurata(Andrea Riseborough),e l'ex moglie.Il film si snoda come un lungo e sinuoso piano sequenza sapientemente montato,che avvolge ed accompagna i protagonisti nel loro entrare ed uscire dalla scena così come entrano ed escono dalla loro interiorità in un continuo rimando tra realtà e rappresentazione di se stessi. Quasi interamente girato nel famoso St.James Theater con un ritmo travolgente che s'intreccia alla strepitosa colonna sonora di una batteria jazz dal suono sincopato;imbandisce uno spettacolo dove niente viene risparmiato:dal ruolo della critica sostanzialmente chiusa nei propri clichés di pensiero e incapace di cogliere ciò che di nuovo esprime
la contemporaneità perchè vincolata alle sue etichette ed autoreferenzialità.Al ruolo straniante che giocano i media ed i nuovi social.(godibilissima la battuta su Barthes). E sulla sostanziale contrapposizione culturale che si vuol far giocare tra ciò che è ritenuto popolare-commerciale quindi “basso” e contenuti riconosciuti da una élite, e principalmente perchè ad essa funzionali, sugellati come “artistici”.
Il film è anche una riflessione sulle tecniche di recitazione e sulle mille nevrosi che ruotano intorno al mestiere d'attore.Tutti gli interpreti concorrono,giocando con rimandi alle propria realtà di attori a cominciare da Michael Keaton; e si sprecano anche battute al cianuro, su altri illustri colleghi.
Unico punto debole è proprio la cifra surreale onirica che viene spesa soprattutto nel finale,che sebbene
dichiaratamente aperto lascia perplessi.
Altra nota stonata, il trucco: mai visto infierire così tanto su un attore.
Da vedere