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martedì 24 marzo 2015

Vizio di forma (Inherent Vice)


    Il ponte sospeso del desiderio,tra sogno e risveglio,nei colorati anni70'.

Di non facile approccio questo Vizio di Forma,ultimo capitolo nella filmografia di Paul T. Anderson;
tratto dall'omonimo racconto di Thomas Pyncheon, monolite e scheggia impazzita della letteratura post moderna americana . Ma al Nostro non difetta evidentemente nè coraggio nè il gusto della sfida, se ha deciso di misurarsi con lo scrittore meno catalogabile e dalla scrittura più stratificata e camaleontica della letteratura americana negli ultimi 30 anni. Il personaggio di Sortilège(la cantautrice ed arpista Johanna Newsom) voice over di tutto il film ed all'uopo presenza in carne ed ossa; è il Virgilio che ci introduce,sullo sfondo della spiaggia di Gordita Beach in California, nella vita del detective “fattone”Doc Sportello(uno strepitoso Joaquin Phoenix).
E dalle nebbie di un passato felice e mai oscurato nel ricordo,compare all'improvviso la ex Shasta Fay(rivelazione Caterine Waterston), che gli chiede aiuto per indagare sulla scomparsa del suo attuale amante, il miliardario Mickey Wolfmann(Eric Roberts),supponendo un complotto ordito dalla moglie per eliminarlo e nel quale coinvolgerla.
Questo l'incipit che mette in moto il “viaggio” di Doc per dipanare il caso, e lo porterà ad interloquire con il poliziotto irrisolto "Bigfoot" Bjornsen(l'ottimo Josh Brolin),il sassofonista tossico e spia in incognito Coy Harlingen(un candido Owen Wilson),la disinvolta procuratrice ed attuale compagna Penny Kimball(Reese Witherspoon), l'amico avvocato Sauncho Smilax(Benicio Del Toro),il capo di una lobby di dentisti Rudy Blatnoyd(Martin Short), ed una fantasmagorìa di bizzarri e colorati personaggi che faranno da contrappunto ritmico allo svolgersi del racconto.
Il viaggio di Doc nella California simbolo e contenitore di tutte le istanze dell'America dei Seventines, che segue con la sua ubriacatura,i favolosi 60,anni del sogno e della possibilità; procede attraverso i colori di una realtà lisergica,filtrata dall'espressione degli occhi sgranati di Doc, in continua oscillazione tra l'incredulità divertita(e si ride molto in buona parte del film) e lo smarrimento impotente. L'interazione di Doc con gli altri protagonisti,costituisce per l'indagine, ora una sosta, ora una digressione, ora un diversivo depistante. Con una serie di rimandi continui ad altri possibili percorsi e scenari,e con l'insorgere di nuovi dubbi e sorprese eventuali ed inaspettate. Pur considerando i richiami letterari e cinematografici nel solco del noir, che vanno dal Chandler più classico, alla rilettura del Lungo addio fatta da Altman,e del quale Anderson ha sempre dichiarato di sentirsi figlio; Doc mostra un atteggiamento in parte ancora non disincantato, come molti dei personaggi che lo circondano, e questo consente ad entrambi, una distanza spensieratamente autarchica,una sorta di collocazione atemporeale ed ironica del proprio“sentire”; pur trovandosi totalmente immersi nella realtà storica dell'America dove si incrociano ed incombono cupamente,le figure di Nixon e della setta Manson .Gli stretti primi piani, usati per lo più da Anderson nel film insieme a campo e controcampo, ci riportano al disegno sostanziale di una geografia dell'anima che vuol “sentire”, al di là della storia nella quale è inserita. E' un territorio di confine,il luogo dove Doc vagheggia pur sapendolo impossibile, il ritorno “ad un giorno di pioggia dove con Shasta è stato felice, senza perchè e senza preavviso”. E' lì, che malinconicamente mentre sussiste un risveglio straniante, si anela contemporaneamente un impossibile ritorno;nella consapevolezza finale che può portare soltanto,”a fare del nostro meglio”. Il film sembra senz'altro cogliere il mood, sospeso e cristallizzato in questa tensione dell'anima verso una condizione inconsapevolmente felice, che sappiamo ormai pregiudicata e lontana.Lo stesso Doc reca scritto,quasi a monito, sulla porta del suo ufficio LSD. E l'acronimo,in questo caso ,sta per Localizzazione, Sorveglianza,Discrezione. Quasi un'anticipazione della feroce restaurazione che di lì a poco avrebbe annientato quelle pulsioni,travolgendo l'America e non solo.
Va sottolineato il lavoro meticoloso di ricostruzione degli anni 70, nei costumi nelle scenografie e nella splendida fotografia di Robert Elswit, che si muove tra le nebbie delle luci a neon ed i colori di una solare California; esaltata ad hoc peraltro , dall'uso del 35 mm. Evocative e puntuali le musiche di Jonny Greenwood, con la canzone cameo di Neil Young “Journey Through the Past”.
E' da ritenersi senz'altro colpevole, chi non riconoscendo la grandezza di questo film,lo ha ascritto ad uno dei minori di Anderson. Ed ancor più incomprensibile, risulta la mancata candidatura di Phoenix
agli oscar.
Da vedere






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