UNA COMMEDIA SPARTIACQUE
Dalle
frange del neorealismo rosa (Poveri
ma belli, Pane amore e fantasia),
guadagna spazio, alla metà degli anni 50, un versante orientato
verso la
commedia comica,
che già aveva prodotto alcune punte di diamante come Guardie
e ladri e La
banda degli onesti,
entrambi con l’immenso Totò.
Solo
con l’exploit nel 1958 de I
soliti ignoti però
– considerato giustamente un
film spartiacque -,
la caratteristica bozzettistica
o caricaturale che
avevano molti personaggi del cinema precedente,viene messa da parte.
In questo film, nasce infatti, attraverso la sceneggiatura della
coppia Age e Scarpelli, un gruppo di personaggi costruiti per
la prima volta, con un proprio spessore umano ed affettivo,e con una
doppia natura; dipinta a tinte sì esilaranti e satiriche, ma anche
malinconiche e sconsolate. Personaggi che diventano protagonisti
realmente, “a tutto tondo”. Sullo sfondo, l’ambientazione
affatto brillante ed ancora di stampo neorealista, che inquadra lo
status sottoproletario dei protagonisti: una Roma squallida e
sudicia, ancora lontana dai fasti del boom economico, e dal ritratto
brillante, di tanto cinema successivo. Anche per gli attori del
cast, il film costituì una svolta d’immagine e di carriera:
dal Mastroianni latin
lover, trasformato in “mammo”
succube del figlioletto,
al Renato
Salvatori bello e spumeggiante,
trasformato nel redento e maturo Mario, all’eclatante metamorfosi
di Vittorio
Gassman,
passato dal Kean teatrale e raffinato villain del cinema, al
primo ruolo comico da pugile “sfigato”.
Il
cameo di Totò poi, seppure nei limiti di una partecipazione,
riassume nel personaggio di Dante
Cruciani, tante
delle caratteristiche originali ed innovative del film. Prima tra
tutte, l’inadeguatezza e la frustrazione (auto-inflitta), che
accomuna i protagonisti e che deriva dal mancato adeguamento alle
regole della società. Caratteristica che si preannuncia già, con la
sola entrata in scena di Totò, in pigiama. E ancora, ci racconta dei
trascorsi di chi si aggrappa all’idea del furto come ultimo
metodo dell’arte di arrangiarsi,
unico altro modo
di vivere nella società, senza abbassarsi al lavorare. La parte
comico-satirica si alimenta dunque della natura stessa dei
personaggi, ritratti nella loro umanità; ora tenera e umile ora
meschina e improvvida. Tutti si misurano con un’impresa enorme,
rispetto alle loro più o meno dichiarate risorse e abilità. E il
cortocircuito tragicomico è determinato proprio dallo scarto tra
l’obiettivo che si propongono e le effettive possibilità di
raggiungerlo. La loro inadeguatezza smaschera anche la vera natura
del loro animo e delle loro pulsioni – in fondo in nessuno di loro
alberga la reale voglia e convinzione di portarlo a termine – che
sono proprie di una vita vissuta di espedienti, e che non lascia
grandi margini per riscattarsi dal proprio status sociale. Altro
elemento di novità è la
morte,
che irrompe per la prima volta in un film comico, con la scomparsa
dello sfortunato Cosimo (Memmo Carotenuto). Anche questo elemento
però, viene modulato opportunamente per non dare uno spazio ed un
significato non congruo alla narrazione.
Il
successo del film e la sua importanza sono dovute alla leggerezza con
la quale si offre allo spettatore l’immagine complessa di
un’epoca, un
mondo di povertà urbana che
resiste nei suoi valori tradizionali all’attacco della nuova
società di massa. Riuscendo anche, a sottolineare il tema ancora
pressante della fame, trattato agli albori del boom economico.
Il
film ha vantato e vanta ancora oggi tanti tentativi d’imitazione,
ma la profondità psicologica dei personaggi e la loro inettitudine
“autoprotettiva” sono talmente articolati e compositi da rendere
vano ieri come oggi, qualunque tentativo in questo senso.
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